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Maniero: «C'è una cosa che ora mi fa stare bene. Talenti? Non si lavora più sulla tecnica individuale. Trattai Gatti e Cambiaso quando erano in D...»

di Redazione NotiziarioCalcio.com

Il movimento calcistico italiano è palesemente in una fase negativa. Non si tratta di essere o meno ottimisti ma di leggere l'attualità fatta di una precarietà tale che offusca persino le imprese ed i traguardi conquistati. Per continuare a parlare di calcio e di ciò che intorno ad esso sta succedendo, abbiamo intervistato il direttore sportivo Andrea Maniero, ex Rimini, Campodarsego, Luparense, Matelica ed Abano. 

Direttore, prima di tutto cosa sta facendo in questo periodo d'attesa?
«In questo periodo naturalmente sto guardando tante partite, ed anche allenamenti. Tanta serie B, C e D e settori giovanili. Poi, per diletto...».

Cosa?
«Dico la verità, è una cosa che mi fa stare molto bene. Ho preso due campi ed alleno, così per diletto, dei bambini. Faccio un sacco di tecnica individuale visto che in Italia non si fa più. È una cosa che mi è sempre piaciuta fare, che avevo portato anche a Rimini, nel settore giovanile, e da altre parti ma farlo in prima persona, soprattutto al pomeriggio, visto che ho del tempo, la sfrutto per stare bene io e per fare stare bene i ragazzi. Sempre occupato, in un modo o nell'altro, in attesa dell'offerta giusta».

La domanda a questo sorge spontanea. L'endemica mancanza nella produzione di talenti italiani è imputabile anche alla mancanza di lavoro sulla tecnica individuale?
«Non si lavora più sotto questo aspetto. Basta guardare anche a campionati come l'Under 16 di qualsiasi sia il livello, è tutto situazionale. Non si fa più l'analitico, vale a dire un gesto tecnico ripetuto più volte, perché dicono che è tempo perso. Credo più per elevare l'ego degli allenatori che non per quel che serve realmente ad un settore giovanile e cioè ad insegnare ai ragazzi a stoppare la palla, a passare la palla, a colpire di testa, a colpirla al volo, a cercare acrobazie, nuove finte... è anche la società attuale che viviamo che ha contribuito allo stato di cose. Una società in cui c'è solo scuola, che è importantissima, ma non abbiamo più tempo e spazi perché questi bambini giochino in strada. Oggi è scandaloso che un bambino stia a scuola fino a tardo pomeriggio perché i genitori devono lavorare altrimenti non arrivano a fine mese. Quelli fortunati hanno tempo solo per giocare nelle scuole calcio tre volte a settimana, ma qui, oltre che mancare le competenze, manca la voglia di spendere del tempo per il bambino, a favore di quello che è un egocentrismo personale degli allenatori. Lo dico chiaro. E la cosa mi dispiace molto. È chiaro che se oggi non abbiamo più i Roberto Baggio, i Totti, gli Zola, i Di Natale... vuol dire che prima toccavano la palla mille volte, adesso non è così. E lo dicono i ragazzi stessi che vengono da me».


La risposta della governance del calcio italiano sono stati gli obblighi di far giocare gli under in D, le valorizzazioni in C, fino ad arrivare alle seconde squadre...
«Divento antipatico anche in questo caso. Per me non serve a nulla. Il minutaggio non serve a nulla, la regola degli under non serve a nulla. In serie C non serve a nulla la valorizzazione se non a coprire molti errori fatti nelle categorie superiori. Non sai dove mettere i giovani e li mandi in Lega Pro e dai delle valorizzazioni. C'è una statistica allarmante, non lo dico io, che mette in relazioni i giovani che smettono con quelli che sono arrivati a giocare in serie C. Tu obblighi a giocare un ragazzino in Serie D, ma se oggi andiamo a vedere quanti 2004 o 2005 giocano in D rispetto a quando avevano l'obbligo di giocare, capisci che è fallito questo esperimento qui».

E quindi cosa fare?
«La risposta è semplice: io farei giocare quelli bravi. Questo bisogna fare. E va fatto a cominciare dal basso, dai primi calci ai pulcini, fino ad arrivare alle under 11 e 12. Inoltre, il calcio va fatto da chi ha fatto calcio. Non perché chi ha fatto calcio ne sa di più, lungi da me dire questo. Però è ovvio che abbia competenze specifiche rispetto a quel mondo. Invece, oggi, tutti parlano e vogliono fare calcio».


E molti vogliono fare anche i direttori sportivi.
«Purtroppo c'è improvvisazione. Bisognerebbe, invece, conoscere i calciatori, vederli dal vivo, andare a parlarci, ascoltarli, "odorarli". Vedere se si allacciano le scarpe in un certo modo, se è corretto il paio di scarpe che indossano, se ha la pianta stretta o larga. E da qui che si parte».

E poi c'è il problema legato alle strutture.
«Bisogna creare strutture in Italia. Prendiamo il recente caso dello stadio Meazza, qui da noi lo hanno dovuto comprare Milan ed Inter e, quindi, continueranno a dividerselo. Pensiamo a Londra, invece, quante squadre ci sono? E lì ognuna ha il suo stadio di proprietà. Io sto guardando gli under 10 allenarsi su campi impossibili, senza luci.  Da qui si capisce che siamo in un Paese che è indietro. Di questo passo andremo sempre peggio. Non ci sono strutture, principalmente, non ci sono istruttori e non c'è passione per allenare il singolo gesto, le competenze. Se tu ti fermi con un bambino e gli spieghi come deve calciare, come deve mettere il piede, la postura... perdi del tempo e se non hai la passione ed il piacere di vedere un ragazzino fare progressi, a discapito del risultato, non fai un buon lavoro».

Un problema anche economico
«È finito il periodo come il nostro quando eravamo bambini che passavamo ore ed ore a giocare per strada a calcio fino a quando le nostre mamme non ci prendevano per le orecchie perché dovevamo andare a studiare. Quindi, se non possiamo giocare più per strada perché costruiscono case, o perché ci sono i delinquenti per strada, i soldi dall'alto devono arrivare alle piccole realtà se tu vuoi tornare ad essere di livello mondiale. E dalle piccole realtà che nascono i calciatori come Totti che ad esempio ha cominciato nella Lodigiani non è partito a giocare alla Roma».

Lei è legato ad un calcio romantico...
«Il calcio è poesia. Quella che negli ultimi anni sta togliendo il VAR. Pensiamo al gol di Diego Armando Maradona di mano contro l'Argentina. Quel gesto è diventato l'iconica "mano de dios", ci hanno fatto film, libri, murales... e rimarrà nella storia del calcio. Un gol di mano, un gol d'astuzia dove per inventiva e capacità coordinativa Maradona è stato un genio. Il calcio è sempre stato così. Se uno batte una punizione in maniera rapida, vuol dire che il bambino, l'atleta, è sveglio. Una volta segnavi ed esultavi, ora bisogna aspettare un quarto d'ora. Tutto sta diventando senza cuore, senza passione. Il VAR è un mezzo utile ma che andrebbe usato soltanto per i casi eclatanti ed evidenti. Allora avrebbe un senso. In serie C che senso ha? Non hai tutte le telecamere che hanno in A e poi mi pare che difficilmente stiano tornando sulle loro posizioni. Se vengono chiamati al monitor ma si vede e non si vede, non cambiano idea».   

Nonostante le precauzioni prese, in Lega Pro anche quest'anno sono molteplici le società con problemi e soprattutto ci si è abituati ormai a vedere club con penalizzazioni in classifica. A proposito di queste difficoltà, a distanza ormai di anni, potremmo dire che ha avuto ragione il presidente Pagin a non iscrivere il Campodarsego in C? È stato lungimirante? 
«Io avevo realizzato un business plan sostenibile per quello che era il Campodarsego. Avevamo un vantaggio: se fossimo retrocessioni dalla C in quel momento lì non ci sarebbero state ripercussioni ambientali. Però dico anche che giustamente non se l'è sentita. Si è trovato da solo, magari ha pensato all'eventualità che alcuni sponsor potessero abbandonarlo... Io avevo creato sostenibilità però il presidente doveva anche credere che magari fosse così ma non potevo impedirgli di essere scettico sulla fattibilità del progetto. Poi c'era la questione stadio, saremmo dovuti andare a giocare a Padova ed il campo non ce lo regalavano, bisognava spendere tanti soldi. Avevamo anche trattato giocatori che oggi sono arrivati in serie A. Però al momento non potevamo saperlo. Però, il calcio in serie C bisogna avere i soldi per farlo altrimenti è sempre un rischio. Basta guardare Rimini dove io sono stato. Noi avevamo speso un milione lordo per fare tutto ed avevamo incassato un milione e due perché avevamo venduto giocatori per quella cifra. All'epoca io manifestai la mia preoccupazione alla nuova proprietà perché avevo visto cose che non mi erano piaciute. Poi, hanno preferito andare avanti con altre persone ed adesso sono finiti non benissimo. Perché se spendi male i soldi, senza essere lungimirante rischi grosso. Però la lega deve fare qualcosa, ed anche lì avrei delle cose da dire...».

Le dica.
«I giocatori vengono dalle serie minori. Io trattai Gatti e Cambiaso, che all'epoca erano in serie D. E potrei andare avanti con tantissimi altri nomi. Quindi, arrivano a fare un calcio di livello partendo dalle piccole realtà. Il calcio in queste categorie è l'unico lavoro che non produce niente. Non è che io costruisco una matita e la vendo. Nelle serie minori c'è solo da buttare i soldi. Un presidente non può avere gli stessi doveri di una squadra di serie A e non avere gli stessi diritti perché non ti arriva niente a livello economico. Se non due spicci dai diritti tv quando in serie A prendono i soldi veri. Un calciatore che prende cinquantamila euro netti all'anno, ad un club costa cento lordi, più centodiciotto-venti di costo azienda. Non è un calcio sostenibile così. Bisogna defiscalizzare, i contributi da pagare per i club minori devono essere diversi. Un’altra idea: ad una società arrivano "X" euro, ma tu club sei vincolato a destinare una parte dei fondi ottenuti alle strutture. Magari un anno fai il campo da gioco in sintetico, la stagione dopo fai gli spogliatoi e via dicendo. Così alla lunga crei un movimento che ti porterà ad avere più talenti e sostenibilità del sistema stesso».

Parlando di calcio giocato, dai professionisti a scendere, c'è qualche squadra che l'ha colpita?
«Adoro vedere giocare il Como, mi piace sentire come parla Fabregas. Abbiamo bisogno di uomini di questo valore morale, qualitativo. Ogni volta che dice qualcosa non è mai banale, è una persona molto intelligente e lo si vedeva anche come giocava a calcio. L'idea di non speculare, di essere leale e di creare un calcio propositivo a me piace davvero tanto. E devo dire anche Chivu mi sembra sulla stessa lunghezza d'onda. Due allenatori giovani che stanno cercando di portare l'essenza del giocare a calcio. Poi ho apprezzato il Forlì dove hanno mantenuto l'ossatura della squadra che ha vinto la serie D ed hanno un allenatore Miramari che mi è sempre piaciuto, un tecnico che ha idee. Il Forlì ha quella voglia di proporsi sempre, di correre, di sacrificarsi l'uno per l'altro che mi piace molto. L'anno scorso, così come questo, ho seguito tanto il Cesena. Hanno delle peculiarità importanti e credo che possano disputare un campionato di buon livello. E poi devo dire che mi ha impressionato il Frosinone, ho visto due-tre partite e vanno veramente forte. Vederli da vicino non ti lascia indifferente».

Lei conosce bene anche la serie D, un campionato che ha vinto due volte ed in generale il risultato più scarso ottenuto è stata la vittoria dei play-off. Ci sono piazze blasonate che da anni faticano per tirarsi fuori dalla massima divisione dilettantistica nazionale. Quali sono le difficoltà nel vincere questo torneo?
«Ci sono tante aspettative, soprattutto per certe piazze. Non sempre se spendi tanto ottieni il risultato della vittoria finale. I giocatori bravi in serie D ce li hanno però tutti. Fondamentalmente, sia la prima in classifica che la decima, hanno sempre quei giocatori che ti possono risolvere le gare. Quindi, bisogna avere pazienza, lavorare bene, chiaramente avere competenze. E poi alle prime difficoltà non bisogna sfasciare tutto. Il campionato è lungo, anche se si perdono tre partite di fila. Bisogna creare un'identità di squadra, una unione di squadra. In una categoria come la D, su 162 squadre ci sono giocatori bravi ovunque e tutti possono risolvere le partite. Serve lavorare, avere anche un pizzico di fortuna e dopo i risultati arrivano. Se, invece, si vuole tutto e subito non si va da nessuna parte. Il calcio è bello perché non c'è mai una certezza, l'unica che puoi avere è il lavoro e cercare di tenere sempre i piedi per terra. Io ho avuto la fortuna in serie D di avere sempre presidenti che mi hanno ascoltato, che talvolta hanno anche pazientato di fronte a qualche sconfitta».


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